TRAMA:
«È stata una vita straordinaria, la sua. Nato in una foresta pluviale nella parte più a sud del globo terrestre, Ernest Rutherford era, detto molto semplicemente, un genio. Ha cambiato per sempre il modo in cui vediamo il mondo e noi stessi. È stato il primo a mostrare che gli elementi non sono immutabili: possono trasformarsi in altri elementi, naturalmente, secondo quel processo per il quale usiamo le parole “decadimento radioattivo” e “tempo di dimezzamento”. Ha scoperto la struttura nucleare dell’atomo, dando inizio a un’età “eroica” per la fisica. E ha “fatto l’atomo a pezzi”. Nel 1932 lui e i suoi “ragazzi” furono i primi a farlo, o, più precisamente, furono i primi a frantumare il nucleo dell’atomo e a svelare e liberare forze mai neppure immaginate.»
Grazie ad una borsa di studio istituita nel 1851, l’anno dell’Expo londinese, Rutherford – nato il 30 agosto del 1871 in Nuova Zelanda – ottenne, nel 1895, di continuare i suoi studi in Inghilterra. Collaborando con Thomson, si occupò del passaggio di elettricità nei gas. Ovunque gli scienziati stavano trovando, o comunque cercando, gli esperimenti e le teorie matematiche giuste per descrivere e determinare un mondo fino a quel momento inaccessibile all’occhio umano e ai microscopi. Thomson aveva ideato un modello di atomo, il più accreditato durante il primo decennio del XX secolo, ma nuovi esperimenti sembrarono suggerire che l’atomo consistesse principalmente di spazio vuoto.
A Rutherford fu offerta una cattedra di fisica sperimentale a Montreal: qui il fisico avrebbe avuto una posizione di responsabilità e avrebbe potuto dedicare più tempo alla ricerca. Collaborando con Soddy, assistente nel dipartimento di chimica, riuscirono a provare l’ipotesi della disintegrazione atomica come spiegazione della radioattività, dicendo cose mai dette prima, ma l’isolamento coloniale di Montreal rendeva più difficile accettare la rivoluzione di Rutherford a molti. Ottenne il premio Nobel nel 1908, «per le sue ricerche relative alla disintegrazione degli elementi e alla chimica delle sostanze radioattive».
Il 24 maggio del 1907, ebbe finalmente l’occasione di tornare in Europa in via definitiva: a Machester, il laboratorio più importante in Inghilterra dopo il Cavendish, dove ebbe in eredità un team di laboratorio invidiabile.
Rutherford puntava a guardare all’interno dell’atomo, del quale si conoscevano solo gli elettroni, per la cui scoperta era stato insignito del Nobel Thomson nel 1906. All’inizio di dicembre del 1910, Rutherford aveva chiara in mente l’immagine dell’atomo e di quello che nel 1913 battezzò nucleo: intuì che, in proporzione, il nucleo nell’atomo era come una capocchia di spillo al centro della cattedrale di St. Paul. Rutherford espose i suoi risultati in un articolo il 7 marzo del 1911. Il modello fu accolto come uno dei tanti, ma non convinse: appariva instabile e solo Bohr, dopo qualche mese, mostrò come potesse essere stabile. Il modello di Rutherford-Bohr, frutto di esperimenti ispirati e teorie geniali, rappresentava allo stesso tempo una fine e un inizio: l’inizio della fine della fisica da bancone di Rutherford, quella fatta con ceralacca e cordini. La fisica classica, su cui si poteva letteralmente mettere le mani, stava lasciando il passo alle lavagne; i nuovi esperimenti, tesi a “entrare” nel nucleo, avrebbero richiesto macchine gigantesche in grado di accelerare e manipolare le forze e i corpi descritti e dominati per primi da Isaac Newton, Michael Faraday, J.J. Thomson e dallo stesso Rutherford.
La prima guerra mondiale toccò pesantemente i giovani impegnati nel laboratorio di Rutherford: chi morì in azione, chi rimase ferito, chi, come Chadwick venne internato in un campo di prigionia tedesco. Rutherford invece sviluppò ciò che ora chiamiamo sonar.
Nel marzo del 1919, Thomson abbandonò la direzione del Cavendish e Rutherford ottenne il suo posto.
Nel 1920, Rutherford chiamò protone la particella che usciva dal bombardamento dei nuclei di azoto con le particelle alfa.
Nel frattempo, si era aperta una grande competizione internazionale per frantumare l’atomo e farlo esplodere. Erano impegnati: il laboratorio del Cavendish, la Carnegie Institution di Washington, la University of California, l’Institute of Technology di Pasadena e il Kaiser Wilhelm Institute di Berlino.
Il 1932 fu l’anno dei trionfi per il team di Rutherford: Chadwick, scoprì il neutrone e Walton e Cockcroft videro per la prima volta l’atomo fatto a pezzi, con i nuclei di litio, di massa 7, colpiti da un protone, di massa 1, che si disintegravano in due particelle alfa (nuclei di elio), di massa 4. L’atomo di litio era stato spezzato. Nella violenza dell’evento una parte della massa – 0,02 unità di peso atomico – era stata trasformata in energia. Numericamente si trattava della quantità prevista dalla formula E = mc2. L’energia prodotta era uguale alla massa moltiplicata per la velocità della luce al quadrato. Era la prima prova sperimentale della teoria della relatività di Albert Einstein del 1905.
L’ascesa al potere di Hitler aveva indotto alla fuga millecinquecento scienziati tedeschi, epurati dalle università e dai laboratori: Rutherford spese parecchie energie per trovare un lavoro agli studiosi tedeschi, che lui aveva ribattezzato “gli studiosi erranti”.
Dopo le vittorie conseguite, Rutherford cominciò ad allontanarsi dal Cavendish, prendendosi lunghe pause per stare con i nipoti (avuti dall’unica figlia, morta nel 1930 dando alla luce il quarto figlio): era chiaro che il suo mondo stava cambiando.
Morì il 19 ottobre del 1937, dopo una breve agonia in seguito a una caduta. Le ceneri di Rutherford riposano nell’abbazia di Westminster, vicino alla tomba di sir Isaac Newton.
COMMENTO:
Leggendo il libro, si ha a volte l’impressione di sentir tuonare la voce di Rutherford, nei numerosi aneddoti che lo vedono come protagonista, che ci guidano alla scoperta del mondo subatomico. Grande uomo, grande personaggio, di un’intelligenza eccezionale e vivace, è stato anche un grande maestro, perché numerosi furono i suoi collaboratori che vinsero il premio Nobel: Frederick Soddy (chimica, 1921), Niels Bohr (fisica, 1922), Francis William Aston (chimica, 1922), Paul Dirac (fisica, 1933), James Chadwick (fisica, 1935), Georg von Hevesy (chimica, 1943), Otto Hahn (chimica, 1944), Edward Appleton (fisica, 1947), Patrick Blackett (fisica, 1948), John Cockcroft ed Ernest Walton (fisica, 1951), Pyotr Leonidovich Kapitsa (fisica, 1978).
Questo libro ci racconta la sua vicenda personale, le vicende di questi giovani studiosi e, soprattutto, il cammino della fisica nei primi anni del XX secolo, quando è passata da attività da bancone, con semplici esperimenti realizzabili in piccoli laboratori, agli esperimenti con gli acceleratori di particelle.
Il libro è semplice e coinvolgente e chiunque può affrontarne la lettura, pur non avendo conoscenze specifiche.
TRAMA:
Questa è la storia di un matematico, Armand Duplessis, che aveva davanti a sé un brillante futuro, ma che ha scelto di impegnare la propria vita nel tentativo di dimostrare la congettura di Goldbach. I singoli capitoli sono quasi separati, visto che il protagonista muore ben tre volte e ce lo spiega l’autore nell’introduzione: La morte del protagonista in un capitolo non incide, né deve farlo in alcun modo, sul suo comportamento nel capitolo seguente. Lo si ritrova vispo come una funzione che, superato qualche valore non ammesso, risuscita in un batter d’occhio: affondata verso – ∞ un istante fa, ora si avvicina a + ∞, pronta a nuovi asintoti.
Nato il 16 aprile 1964, ovvero 16.4.64, che potrebbe anche essere letto come 16 x 4 = 64 o come 24.22.26, Armand Duplessis sente che le potenze di 2 hanno in qualche modo segnato la sua vita. A sedici (=24) anni, seguì la serie televisiva Gli enigmi che sfidano l’umanità, durante la quale venne presentata la congettura di Goldbach: ogni numero pari è la somma di due numeri primi. Quella stessa sera, a tavola, annunciò la sua decisione. Sarebbe diventato un matematico. Non un professore di matematica, intendiamoci: un matematico. Perché aveva intenzione di essere il primo a dimostrare la congettura di Goldbach.
Scegliendo di dedicarsi alla teoria dei numeri, venne assunto dall’università di Lione: agli inizi, Armand era uno di quei pochissimi ricercatori che si mostrano all’altezza delle grandi speranze riposte in loro. In moltissimi ambiti della teoria dei numeri i suoi risultati furono stupefacenti, le sue intuizioni decisive, le sue pubblicazioni numerose, le sue idee fondamentali. Ma a 32 (=25) anni, Armand decise di dichiarare che avrebbe proseguito le sue ricerche nel tentativo di dimostrare la congettura di Goldbach.
Dopo essersi dedicato instancabilmente, in ogni momento della giornata, alla congettura, un giorno Armand decise di dimenticarsene, di liberare la propria mente, nel tentativo di pensarci meglio. Esattamente come fece Poincaré che, dopo essersi concentrato molto tempo e inutilmente su un problema, decise di partire per una gita e, mettendo piede sull’omnibus di Coutances, riuscì a trovare la soluzione. Armand sperava di trovare nell’accensione del proprio computer ciò che Poincaré aveva trovato salendo sull’omnibus. Ma non successe nemmeno questo… ha luogo semplicemente la sua seconda morte, mentre si smaterializza osservando la propria immagine.
Dopo la sua morte, i colleghi si trovano a farne un “elogio funebre” un po’ particolare, visto che commentano anche cinicamente la scelta di Armand di dedicare tutta la propria vita a una congettura così difficile: «Avrebbe potuto fare della grande matematica. Forse avrebbe potuto farne, voglio dire. Forse. Non lo sapremo mai, adesso. Ma se c’è una cosa certa, è che si è ostinato stupidamente».
COMMENTO:
Non bisogna cominciare la lettura di questo libro aspettandosi un romanzo normale, con un inizio e una fine. È un romanzo dai molti inizi e dalle tante fini – come dimostrano le tre morti del protagonista – un romanzo fatto in realtà da tanti singoli racconti un po’ fantastici, che descrivono però molto bene la vita di un matematico.
Non mancano numerosi agganci con la realtà matematica: i colleghi di Armand hanno, ad esempio, nomi che imitano quelli dei celebri matematici e cioè Potagore (Pitagora), Pacaré (Poincaré), Barbacchi (Bourbaki), Couchy (Cauchy), Bèrel (Borél), Lebogue (Lebesgue). Simpatica inoltre è la descrizione della presunta scoperta, da parte della moglie di Armand, dell’amante del matematico, secondo una deduzione fatta dopo aver rilevato l’improbabile ricorrenza dei multipli di 99.
Il testo è scorrevole e divertente e, verso la fine, l’autore ci parla anche di Goldbach e della comparsa della famosa congettura durante uno scambio epistolare con Eulero, avvenuto il 7 giugno 1742, ovvero 7.6.42… come nel caso della data di nascita del protagonista: 7 x 6 = 42.
TRAMA:
Nel diciottesimo secolo, la fisica, che riguardava solo i fenomeni meccanici, era analizzata solo dal punto di vista matematico. Più avanti, il calore e l’elettricità vennero spiegati con l’esistenza di fluidi imponderabili, ma si trattava di speculazioni qualitative, separate dalla scienza esatta ovvero dalla meccanica, nonostante i diversi tentativi di trattazioni matematiche. Oersted (1820) e Faraday (1831) riuscirono a collegare, con i loro esperimenti, le forze elettriche e quelle magnetiche; Joule stabilì l’equivalenza tra calore e lavoro meccanico e nel 1847 Helmholtz trattò i fenomeni di meccanica, calore, luce, elettricità e magnetismo come differenti manifestazioni dell’energia. Il modo in cui i problemi fisici della luce, del calore e dell’elettricità venivano trattati era tale da consentirne un’analisi matematica e ciò favorì molto l’unificazione della fisica. Ebbero particolare importanza gli esperimenti di Joule: mentre i fisici del diciottesimo secolo avevano considerato i processi meccanici e quelli non meccanici come processi relativi a differenti sistemi fisici, la dimostrazione dell’equivalenza tra lavoro meccanico e calore fatta da Joule negli anni Quaranta dell’Ottocento consentì, insieme alla legge della conservazione dell’energia, l’unificazione dei processi termici e meccanici. E così negli anni Cinquanta e Sessanta Thomson e W.J. Macquorn Rankine elaborarono un nuovo modello della teoria fisica in cui il concetto fondamentale era quello di energia, tentando di rendere più chiara la base matematica e fisica del principio di conservazione dell’energia.
Il concetto di campo emerse intorno al 1850, nella fisica britannica, quando Thomson e Maxwell formularono le teorie dell’elettricità e del magnetismo. La concezione meccanicistica della natura ricevette un ulteriore supporto negli anni Cinquanta e Sessanta con lo sviluppo della teoria cinetica dei gas elaborata da Clausius e Maxwell, nella quale il moto delle particelle era descritto come fenomeno meccanico. I dubbi sorti dopo questa spiegazione indussero Maxwell a introdurre il paradosso del «demone», per dimostrare che le interpretazioni molecolari dovevano basarsi su un’analisi statistica del moto di un immenso numero di molecole.
Con l’enunciazione dell’equivalenza tra massa ed energia e l’abbandono di spazio e tempo assoluti, la teoria della relatività di Einstein segna una «rivoluzione» nella storia della fisica: per quanto l’accento che si pone generalmente sulla discontinuità tra fisica classica e moderna sia appropriato quando serve a distinguere le assunzioni filosofiche della fisica sette-ottocentesca dalle dottrine relativistiche e indeterministiche della fisica del nostro secolo, e a distinguere una fisica prima e una fisica dopo lo sviluppo della meccanica quantistica negli anni Venti, questa frattura è esagerata e trascura, in un modo che risulta alla fine fuorviante, la continuità di idee che pur esiste tra il periodo classico e il periodo moderno.
COMMENTO:
Una storia della fisica approfondita ed interessante, che può essere affrontata con le conoscenze che si sono acquisite con la scuola superiore. Il linguaggio non rende la lettura sempre agevole, ma con un po’ di concentrazione ed attenzione si può capire ogni cosa.
TRAMA:
A partire dalla matematica dell’antichità, essenzialmente greca, Cresci tratteggia la storia della matematica attraverso i secoli, seguendo il percorso con brevi descrizioni delle curve piane. Non ci sono trattazioni matematiche o dimostrazioni: ci siamo sforzati di legare ogni curva che viene presentata nel testo al suo ideatore e di quest’ultimo tratteggiare la personalità: le biografie dei matematici sono spesso ricche di episodi, di avvenimenti, di aneddoti curiosi, e la parte matematica delle curve non può prescindere dalle circostanze della loro creazione.
Grazie ai tentativi dei greci di ottenere le soluzioni dei tre grandi problemi dell’antichità – la quadratura del cerchio, la duplicazione del cubo e la trisezione dell’angolo – si ottennero altre curve: le lunule di Ippocrate, la trisettrice di Ippia, la quadratrice di Dinostrato.
Procedendo nella storia, incontriamo Archimede: al suo nome sono legate la spirale, una curva piana, tracciata da un punto che si sposta uniformemente lungo una semiretta, mentre questa a sua volta ruota uniformemente attorno al suo estremo e la circonferenza, visto che il genio dell’antichità raggiunse una buona approssimazione del p, inventando un procedimento iterativo.
Nel XVII secolo si celebra l’inizio della geometria analitica: René Descartes operò una vera rivoluzione, identificando una relazione algebrica, e cioè un insieme di simboli formali, con una curva, o meglio con un luogo geometrico, e cioè con l’insieme di tutti i punti che soddisfano ad una data proprietà geometrica. L’utilizzo delle coordinate non era una novità, perché già Apollonio aveva utilizzato un sistema analogo. Le coniche erano già comparse secoli prima: Menecmo le definì e utilizzò per primo, ricavando la parabola, l’ellisse e l’iperbole dall’intersezione di coni circolari retti (rispettivamente con angolo al vertice retto, acuto e ottuso) e piani perpendicolari alla generatrice del cono. Euclide scrisse quattro libri sulle sezioni coniche, probabilmente andati perduti perché superati dall’opera di Apollonio, Le coniche, trattato nel quale dà alle curve il nome con cui le conosciamo anche oggi ed effettua una generalizzazione, ottenendo le curve da uno stesso cono e variando l’inclinazione del piano di sezione. Le sue sono innovazioni coraggiose e profonde.
Altra curva degna di nota è la cicloide, “la bella Elena” della geometria, che non è altro che il percorso che fa nell’aria il punto di una ruota, quando essa rotola nel suo movimento normale, dal momento in cui il punto comincia a sollevarsi da terra, fino al momento in cui la rotazione continua della ruota l’abbia ricondotto a terra, dopo un giro completo. Se la curva fissa non è una retta ma una circonferenza, la cicloide diventa epicicloide se la circonferenza che rotola è all’esterno, ipocicloide se rotola all’interno. I moti epicicloidali furono usati da Tolomeo per descrivere il movimento di alcuni pianeti.
Tra le curve più famose citate nel libro: la concoide di Nicomede, la cissoide di Diocle, la lumaca di Pascal (padre), la lemniscata di Bernoulli, la spirale logaritmica, la catenaria, la cardioide, la nefroide, la strofoide, la clotoide – studiata inizialmente da Eulero –, la versiera di Gaetana Agnesi – nota in inglese come witch of Agnesi –, la funzione di Gauss, la funzione logistica di Verhulst – per lo studio della crescita demografica di una popolazione –, la curva di Peano, la polvere di Cantor, la curva a fiocco di neve, il setaccio apolloniano e i frattali di Mandelbrot.
Le appendici che concludono il testo riprendono tre argomenti oggetto di presentazione nel testo: la biblioteca di Alessandria, l’invenzione della Pascaline e la storia di Lady Lovelace e Charles Babbage, che precorsero i tempi concependo l’Analytical Engine – il predecessore dell’odierno pc – già nel XIX secolo.
COMMENTO:
Visto l’elevato numero di argomenti, curve, aneddoti, non si può che trattare di un “assaggio” di storia della matematica, da sottoporre a ulteriori approfondimenti. Semplice e scorrevole, la sua lettura è consigliata a tutti.
TRAMA:
Nella notte tra il 18 e il 19 febbraio del 1512, durante il sacco di Brescia ad opera dei soldati francesi, Niccolò Tartaglia cercò riparo dentro il Duomo, ma i francesi assalirono i rifugiati e uno di essi gli inferse cinque ferite in volto. Niccolò guarì nel giro di qualche mese, grazie alle cure della madre, ma le ferite alla bocca gli causarono la balbuzie: i coetanei lo prendevano in giro per questo suo difetto chiamandolo “tartaglia” ed egli adottò questo nomignolo come cognome.
Nato a Brescia presumibilmente nel 1499 da una famiglia molto povera, Niccolò Tartaglia lavorò autonomamente alla propria formazione scientifica, studiando le opere di Euclide, Archimede e Apollonio. Tra il 1516 e il 1518 si trasferì a Verona, dove rimase fino al 1534; qui acquisì notorietà e rispetto, con il ruolo di maestro d’abaco. La fama raggiunta da Tartaglia è testimoniata dai quesiti da lui posti a numerosi interlocutori. A quei tempierano di gran voga in Italia le disfide tra matematici, di rango universitario e non: veri e propri duelli scientifici il cui svolgimento ricalcava i canoni dei tornei cavallereschi. Uno studioso inviava a un secondo alcuni problemi, che rappresentavano il guanto di sfida di queste particolari tenzoni, e lo sfidato doveva cercare di risolverli entro un termine prestabilito, proponendo a sua volta all’avversario ulteriori quesiti. La consuetudine voleva poi che ogni duello dall’esito contrastato culminasse in un pubblico dibattito, nel corso del quale i contendenti erano tenuti a discutere dei problemi scambiati e delle relative soluzioni alla presenza di giudici, notai, governanti e di una platea di spettatori sovente assai folta. Non era infrequente, inoltre, che tali disfide si facessero parecchio incandescenti, sconfinando dal piano scientifico a quello dell’invettiva personale. D’altra parte, la posta in palio poteva essere molto alta: il vincitore di una pubblica disfida matematica, ossia colui che aveva risolto il maggior numero di problemi, non guadagnava solo gloria e prestigio, bensì più concretamente anche un eventuale premio in denaro, nuovi discepoli paganti, l’acquisizione o la conferma di una cattedra, aumenti di stipendio e spesso incarichi professionali ben remunerati. La carriera dello sconfitto, invece, rischiava di rimanere seriamente compromessa.
Il secondo protagonista di questa storia è Gerolamo Cardano: nato a Pavia il 24 settembre 1501, si laureò in medicina nel 1526, ma solo nell’estate del 1539 fu accolto dal Collegio dei medici di Milano, che aveva osteggiato la sua elezione a causa dei suoi illegittimi natali. Divenne in seguito il medico più famoso e richiesto della città. Informato da un matematico che Tartaglia aveva trovato la formula risolutiva delle equazioni di terzo grado, si mise in contatto con lui all’inizio del 1539 per avere la formula, ma Tartaglia rispose negativamente alla richiesta: “quando vorrò pubblicar tal mia inventione la vorrò publicar in opere mie et non in opere de altri”. Dopo una corrispondenza dai toni abbastanza vivaci, Tartaglia si recò a Milano da Cardano in primavera: ebbero a disposizione diverso tempo per discorrere tra loro e confrontarsi su vari temi, uno dei quali non poteva che essere la questione delle equazioni cubiche e delle loro regole risolutive. Cardano giurò a Tartaglia che non avrebbe mai svelato la formula risolutiva e questi si lasciò convincere a rivelarla. I due smisero di scriversi nel gennaio del 1540 e non sono documentati ulteriori contatti personali o epistolari.
Mentre Tartaglia rivelava la formula, Cardano era in compagnia di un giovanissimo allievo, Ludovico Ferrari. Nato a Bologna il 2 febbraio 1522, Ferrari discendeva da una famiglia milanese: rimasto presto orfano, fu mandato a Milano come servitore nell’abitazione di Cardano, il quale, accortosi della sua predisposizione agli studi, si prese cura della sua istruzione. Nel 1542 si recarono a Bologna per far visita a un matematico: questi mostrò loro un vecchio taccuino appartenuto al suocero, Scipione Dal Ferro, nel quale i due trovarono la formula risolutiva delle equazioni cubiche. Dopo aver appreso la formula, Cardano e Ferrari si persuasero della necessità di diffondere in tutto il mondo scientifico le nuove conoscenze acquisite e Cardano, in particolare, si sentì svincolato dal giuramento fatto a Tartaglia. Nel 1545, Cardano pubblicò il volume Artis magnae, sive de regulis algebraicis più noto come Ars Magna, un testo destinato a imprimere una svolta profonda nella storia dell’algebra, determinando l’avvio di una nuova era per le ricerche matematiche. Nel suo trattato, Cardano attribuì agli autori delle formule risolutive i dovuti meriti e riconobbe i contributi di Ferrari, con il quale aveva collaborato. La formula risolutiva delle equazioni cubiche è spesso denominata «formula cardanica» poiché, pur non essendone stato lo scopritore, fu Cardano a farla conoscere al mondo scientifico, e per di più completa di dimostrazione.
Nel 1546, Tartaglia pubblicò Quesiti et inventioni diverse, nel quale si scagliò contro Cardano, che non aveva tenuto fede al giuramento di silenzio. Cardano non replicò all’attacco, ma lo fece Ferrari: il 10 febbraio 1547, inviò a Tartaglia un pubblico «cartello di matematica disfida», proponendogli di misurarsi con lui in un pubblico “duello”. I due continuarono a scambiarsi cartelli dal giugno all’ottobre del 1547 e si scontrarono il 10 agosto 1548 a Milano. Tartaglia abbandonò la disputa dopo il primo giorno, perché la riteneva invalidata dal comportamento del pubblico presente, apertamente schierato a favore dell’avversario, ma dichiarò di esserne il vincitore, contestando alcune delle risposte di Ferrari. Non possiamo sapere come siano andate davvero le cose, ma la maggior parte delle fonti riconosce in Ferrari il vincitore dello scontro.
Tartaglia morì a Venezia il 13 dicembre 1557, in solitudine e povertà. Ferrari morì a soli quarantatre anni, probabilmente avvelenato dalla sorella. Cardano morì il 20 settembre 1576, dopo aver visto giustiziare uno dei suoi figli per uxoricidio ed essere stato condannato dall’Inquisizione.
COMMENTO:
Quanto è raccontato in questo libro costituisceun complesso di vicende tanto sorprendenti e appassionanti da richiamare, crediamo, la curiosità anche dei non addetti ai lavori: vicende ricche di situazioni dal sapore romanzesco – intrighi, segreti, arroventate dispute erudite – e animate da personaggi affascinanti, geniali e bizzarri, capaci di eccellere nella loro epoca sia per virtù di intelletto che per umane debolezze. Con queste parole nell’introduzione, l’autore ci fornisce un ottimo motivo per leggere questo libro. Per molte persone, è difficile immaginare che tante passioni possano animare la scoperta di una formula matematica: per questo tutti coloro che considerano la matematica arida e priva di passionalità dovrebbero leggere questa storia.
Le ultime righe del libro:
Nella prima metà del Cinquecento, di fatto, Scipione Dal Ferro, Niccolò Tartaglia, Gerolamo Cardano e Ludovico Ferrari furono i quattro scintillanti moschettieri che illuminarono il cielo dell’algebra con le loro straordinarie e feconde scoperte. Scoperte originate non solo da genio creativo e abilità tecnica, ma altresì da passione, dedizione, perseveranza, competizione, gelosia, ambizione, stima, risentimento, impeto, sofferenza. Insomma, da tutto il carico di umanità che si può nascondere anche dietro una formula matematica.
TRAMA:
Dall’introduzione:
Le vicende in cui ci imbatteremo hanno a che fare con la religione, l’amore e l’imbroglio non meno che con la scienza oggettiva e la tecnologia. Ci faranno spaziare dalle strade di Amburgo durante un bombardamento della seconda guerra mondiale alla mente di Alan Turing, geniale inventore del computer, perseguitato proprio dalle autorità del paese che aveva salvato; da Michael Faraday, nato nei bassifondi e tenuto in scarsa considerazione dai suoi contemporanei a causa della sua fede religiosa (grazie alla quale, però, fu il primo a vedere le forze elettriche intrecciarsi invisibili nello spazio), a un pittore, Samuel Morse, che si candidò entusiasta a sindaco di New York con un programma di persecuzioni contro i cattolici, e che apprese più di quanto non fosse mai disposto ad ammettere sul funzionamento dei telegrafi da un pioniere il quale non riusciva a credere che qualcuno volesse brevettare un’idea così ovvia.
Incontreremo un esuberante immigrato in America poco più che ventenne, Alexander Bell, deciso a tutto per conquistare l’amore di una studentessa adolescente sorda, e il quarantenne Robert Watson-Watt, che invece cerca disperatamente di sfuggire a un matrimonio noioso e al tedio della città di Slough degli anni 1930. E ancora Otto Loewi, che si sveglia la notte prima di Pasqua rendendosi conto di aver risolto il problema di come l’elettricità opera nel nostro corpo, ma che il mattino dopo, disperato, non riesce a leggere gli appunti scarabocchiati che ha buttato giù accanto al letto durante la notte; e il ragazzo scozzese di campagna, James Clerk Maxwell, che per anni alla scuola elementare viene trattato da tonto dai compagni prepotenti, eppure diviene il massimo scienziato teorico del XIX secolo, capace di concepire la struttura intima dell’universo in modo che gli scienziati delle epoche successive riconosceranno profondamente vero. Tutte queste vicende mettono in luce come la forza immensa dell’elettricità fu gradualmente svelata, come fu sottratta al suo regno occulto, e che cosa noi, esseri umani imperfetti, abbiamo fatto dei poteri accresciuti che essa ci ha conferito.
COMMENTO:
Una delle caratteristiche principali del libro è la sua semplicità: i passaggi più complessi sono lasciati alle note in fondo al testo, che spiegano il funzionamento delle macchine descritte, mentre il resto della trattazione è alla portata di tutti.
La storia degli uomini che hanno reso possibili le comodità del mondo attuale è coinvolgente: in alcuni tratti della storia del radar, ad esempio, si ha quasi l'impressione di leggere un romanzo di Ken Follett, vista la suspense! E poi le vicende di questi uomini, si tratti delle slealtà di Morse o della solitudine di Turing, rendono tutto il mondo della fisica più vicino alla nostra quotidianità.
TRAMA:
Ipazia è una filosofa, matematica e astronoma che insegna al Museo di Alessandria d’Egitto alla fine del IV sec. d.C. Fra le sue imprese c’è il commento a un libro del grande Tolomeo – al sistema geocentrico da lui proposto, Ipazia preferisce il sistema eliocentrico di Aristarco – e alle Coniche di Apollonio di Perga.
Un anno dopo la morte del padre Teone, Ipazia si ritrova a far lezione in un’Alessandria perennemente in tumulto: da quando l’imperatore Teodosio ha proclamato il cristianesimo religione di stato, il patriarca di Alessandria, Cirillo, durante le sue prediche istiga i cristiani alla violenza contro i pagani. Nel frattempo, anche la partenza per Atene di Sinesio, l’allievo preferito di Ipazia, contribuisce a farla sentire amareggiata e offesa per una separazione che sente come un tradimento. A questi si aggiunga il matrimonio di Sinesio con Fulvia: Ipazia ha sempre pensato che avrebbero condiviso la scelta della verginità e che sarebbero invecchiati insieme e, sull’onda dell’emozione, decide di sposare Evandro, un celebre grammatico, amico del padre. Dopo il matrimonio, però, non si concede al marito e questi, a un mese dalle nozze, la lascia.
La Chiesa entra sempre più prepotentemente nelle questioni di stato e Teodosio ordina che vengano requisiti tutti i templi pagani per farne delle chiese cristiane: ad Alessandria si arriva ad una vera e propria carneficina. Ipazia, che si lascia guidare dalla ragione della filosofia, cerca di scoraggiare la violenza: «Se vogliamo pensare e agire secondo virtù, dobbiamo volere un mondo in cui a ognuno sia permesso di onorare i suoi dei, quali che siano, e di praticare pubblicamente il suo culto, senza che nessuno lo infastidisca o lo offenda nelle sue convinzioni e nei suoi riti.»
La comunità dei pagani diviene sempre più debole: gli elleni più noti e influenti abbandonano Alessandria e Ipazia diventa il punto di riferimento per i pagani rimasti in città. Decide di sfidare Cirillo a un duello di idee in pubblico, come soluzione pacifica dello scontro, per trovare in qualche modo una mediazione tra cristiani e pagani. Durante il duello, Cirillo definisce Ipazia una prostituta e non si comporta in maniera leale, ma la lotta si conclude più o meno alla pari. Ipazia è come assente da quando uno dei cristiani, tra il pubblico, le ha chiesto se sa chi sia sua madre. A Ipazia è sempre stato detto che sua madre, una nobile dell’Illiria, è morta di parto, ma non è così: la sua vera madre è Demetra, la serva che le ha fatto da balia. Nei giorni che seguono, le due donne parlano a lungo. Presa dai suoi pensieri e dalla nuova vita che ha cominciato a vivere, Ipazia trascura il pericolo e un giorno, andando a lezione, viene ferita gravemente. Il medico riesce in qualche modo a salvarla, ma dopo il grande pericolo corso le ordina, per il bene della sua salute, di trasferirsi in campagna.
Qualcosa in lei è davvero cambiato: in Antinoo, servitore fedele, trova finalmente l’anima che la completa. Quando viene raggiunta dai suoi allievi, Ipazia decide di fare lezione in campagna: si forma così una comunità filosofica, una vera scuola, come aveva sempre desiderato.
Nel frattempo, Sinesio, divenuto vescovo di Tolemaide, ha perso tutto visto che i tre figli sono morti e Sinesio, sentendo di non aver molto da vivere, cerca di contattare Ipazia: muore tra le sue braccia, finalmente rappacificato con lei e con se stesso.
Ipazia torna dalla sua dimora di campagna, intenzionata a spendere la propria vita in nome della verità. Alessandria si presenta preda del furore delle opposte fazioni. Ipazia tenta di risolvere la situazione aiutando il prefetto Oreste, ma è ormai convinta da tempo che la filosofia è impotente contro l’irrazionalità della folla. Riprende il suo insegnamento al Museo, ma attorno a lei tutto parla di abbandono.
Dopo la decisione di Oreste di proibire una processione organizzata dal vescovo, Cirillo fomenta la reazione, dando la colpa a Ipazia, sicuramente l’ispiratrice delle scelte del prefetto. Aggredita mentre si reca al Museo, Ipazia viene uccisa sul sagrato del Cesareo, il tempio cristiano: Le gridano insulti e sconcezze, la toccano, le strappano le vesti, gridano, ridono risate oscene. Si spingono gli uni con gli altri, si calpestano, corrono come un branco di animali infuriati o sorpresi da un incendio. Non sono più una somma di uomini, ma un unico immenso animale acefalo che corre qua e là senza sapere dove né perché, reso cieco da un immenso furore. Sono come una muta di cani che abbia annusato l’odore della preda, ne abbia già assaggiato il sangue e non possa più fermarsi, non oda più il richiamo del padrone che vorrebbe trattenerla. Hanno bocche spalancate nell’urlo dell’odio, mani adunche che graffiano e sbranano, occhi sbarrati, senz’altra espressione che un’ira cieca e bestiale. La tirano da ogni parte, lacerandole la pelle e poi la carne; la prendono a calci sul ventre, sul petto, sul viso.
COMMENTO:
Libro molto coinvolgente e attuale: la storia di intolleranza che viene descritta potrebbe essere avvenuta ai giorni nostri. Ipazia è descritta a tinte vivaci: è un personaggio che suscita simpatia, una donna che vive per la verità e per la conoscenza, e che cerca di cambiare in qualche modo il corso della storia. Le sue intuizioni matematiche passano in secondo piano rispetto alla vicenda che la vede protagonista, ma è interessante vedere la lungimiranza con la quale ha proposto il sistema eliocentrico, andando contro il grande Tolomeo, e lo studio di mondi a più dimensioni.
Per il poco risalto che la sua vita ha avuto nel passato (difficilmente nominata quando si parlava dei matematici del passato), pareva che Cirillo avesse avuto ragione di lei, riuscendo a far dimenticare la sua esistenza: questo libro ce la descrive finalmente nella sua umanità e nella sua tensione verso la verità.
Questo libro è ora pubblicato con il titolo "Ipazia muore", l'autrice usa il suo vero nome, Maria Moneti Codignola, e la casa editrice è La Tartaruga Edizioni.
TRAMA:
Fin dall’antichità, l’uomo si è fatto aiutare dai numeri e, nel momento in cui l’organizzazione sociale è diventata più complessa, essi sono diventati indispensabili per gli scambi commerciali. Dai pezzi di osso sui quali erano riportate tacche che indicavano la numerosità di un insieme, i sistemi di numerazione si sono evoluti diventando posizionali, a base 10 e con l’irrinunciabile presenza dello zero, che gli europei hanno conosciuto solo nel XII secolo.
Riuscire a distinguere tra numerosità è vantaggioso anche per l’evoluzione degli animali, ma per quanto tale capacità sia più che buona, essa si limita a quantità piuttosto piccole e decisamente diverse tra loro. Sarebbe quindi insensato attribuire agli animali una naturale predisposizione ad apprendere l’aritmetica simbolica. Un discorso diverso e al tempo stesso simile si può fare per i bambini piccoli: alcuni ricercatori hanno dimostrato che i bambini già a quattro mesi di vita sono sensibili alla numerosità. Solo a partire dagli anni Ottanta gli psicologi evolutivi si sono posti delle domande riguardo alle abilità aritmetiche dei bambini, mentre prima di allora c’era la convinzione che solo la continua interazione con il mondo esterno favorisse la graduale comparsa delle abilità logico-matematiche. Come si è dimostrato, i bambini sviluppano del tutto spontaneamente molteplici procedure di calcolo, che con la memorizzazione e la pratica possono permettere a un bambino di diventare un abile calcolatore.
A metà del XIX secolo Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin e strenue sostenitore dell’ereditarietà delle abilità intellettive, riconosceva nell’entusiasmo e nell’applicazione gli ingredienti essenziali dell’eccellenza, per quanto la passione e l’esercizio non bastino da soli ad ottenere grandi risultati. Ci sono infatti persone per le quali la matematica costituisce una dura fatica, ma solo negli ultimi anni si è imparato a riconoscerne i disturbi di apprendimento e le difficoltà di calcolo. Al di là delle oggettive difficoltà cognitive, la matematica resta comunque l’unica materia che riesce a suscitare una così grande antipatia in chi la deve studiare, l’unica ad essere fonte di un’ansia tale da arrivare a generare il fallimento nelle prestazioni in cui è coinvolta. Se si riuscisse in qualche modo a diminuire la distanza della matematica dalla realtà, mostrando quanto i numeri e il loro uso siano parte integrante della quotidianità, l’insegnamento sarebbe più efficace. Secondo l’autrice, diventa utile integrare il più possibile situazioni scolastiche ed extrascolastiche, perché il riferimento a contesti familiari aumenta il senso di fiducia e di competenza di colui che sta imparando.
Con la nascita della neuropsicologia e lo studio delle lesioni cerebrali, si è potuto comprendere qualcosa di più del funzionamento del cervello e possiamo dire con ragionevole certezza che il cervello umano, grazie a una lunga evoluzione biologica, è dotato di circuiti neurali dedicati localizzati a livello delle aree parietali di entrambi gli emisferi, su cui si fonda il nostro senso della quantità.
COMMENTO:
In forma più semplice de Il pallino dei numeri di S. Dehaene, in cui è possibile ritrovare tutti i temi qui trattati affrontati con maggior respiro, l’autrice cerca di dare una risposta al difficile quesito se esista o meno un “bernoccolo” della matematica. La Girelli afferma che ciò che più influenza il nostro modo di affrontare la matematica è il metodo di insegnamento usato: Ciò che rende un bambino un brillante futuro matematico o un esitante e ansioso calcolatore non è da cercare nel suo cervello, ma è soprattutto nei tempi e nei modi in cui gli è stato svelato il mondo dei numeri e questo, in un certo senso, apre il cuore di ogni alunno alla speranza. Infatti, è sempre possibile cambiare il proprio atteggiamento nei confronti della matematica ed ottenere risultati più brillanti: non devono mancare fiducia in se stessi, entusiasmo, passione e una buona memoria.